di  Samir Khalil Samir SJ*** 

La situazione dei cristiani nel mondo musulmano è sempre stata difficile, perché non sono mai stati considerati come cittadini. Noi sappiamo, per fare un esempio, che in Egitto i copti sono “più egiziani” di chiunque, visto che la parola “copti” si pronuncia gypti, egiziani. Il sistema giuridico locale, però, concepito all’inizio del VII secolo in Arabia, prevede che i musulmani “sono” lo stato e che sono loro a permettere agli ebrei e ai cristiani di vivere insieme. Non altri. Chi non crede – dicono – “non ha la possibilità di vivere con noi”. Questo è il sistema giuridico previsto dalla sharia islamica. Nel Corano si precisa che ebrei e cristiani sono dhimmi, cioè “protetti”, e che possono vivere con i musulmani.

Ma il Corano precisa anche che devono pagare un tributo, la jizya, essendo essi “umiliati”. Ebrei e cristiani, dunque, possono vivere con i musulmani, ma come cittadini di seconda classe. Vi sono però eccezioni. In Siria, per esempio, le cose erano diverse: la Costituzione non è la sharia, bensì un testo redatto negli anni Cinquanta da un cristiano, Michel ‘Aflaq, adottato da Assad padre e confermato da Assad figlio. La stessa Costituzione era stata adottata in Iraq da Saddam Hussein. E’ una Carta neutrale che riconosce tutte le religioni: stessi diritti per tutti i cittadini, libertà di costruire chiese, moschee, sinagoghe. Situazione ben diversa in Egitto, dove per costruire una chiesa ci vuole il permesso personale del presidente della Repubblica. Permesso che è raramente concesso, anche a causa del lungo iter burocratico. Limitazioni presenti anche in altri ambiti. Nell’esercito, un cristiano sa che non potrà mai avere posti di comando. Nell’istruzione, dove l’insegnamento dell’arabo ai cristiani è stato vietato già negli anni Sessanta, con il pretesto che per imparare quella lingua bisogna conoscere bene il Corano. Cose così accadono nella vita di tutti i giorni. Ottenere un posto di lavoro è più difficile per un cristiano rispetto a un musulmano. Certo, non ti negheranno mai il lavoro dicendoti “perché sei cristiano”, ma si limiteranno a sostenere che non c’è posto. Parlo per esperienza personale. A un mio amico musulmano ho detto: “Prova a chiedere tu, a me hanno detto – appena sentito come mi chiamavo – che non c’è posto”. Va premesso che noi abbiamo tre nomi (quello proprio, quello del papà e quello del nonno). Se in quei tre nomi non c’è un nome tipicamente musulmano (Mohammed, Mahmoud, Mustafa) allora è chiaro che non si è musulmani. Il mio amico ha fatto come gli avevo chiesto e la risposta è stata subito positiva: il posto c’era. Accade tutti i giorni, è routine. Se però ci troviamo a che fare con dei movimenti fondamentalisti, radicali, opposti a tutto ciò che non è islamico tradizionalista, allora la situazione diviene ancor più grave: si distruggono le chiese, si fanno cadere le croci. Ciò che i cristiani chiedono è una Costituzione neutrale. In altri termini, una Carta dove non si parla di musulmani e cristiani, di uomini e donne, ma solo di cittadini. E’ ciò che il Sinodo per il medio oriente ha chiesto nell’esortazione apostolica, ma che non è stato recepito.

Il problema maggiore ha a che vedere con le conversioni dall’islam al cristianesimo. E’ impossibile, si rischia la vita. Se un musulmano decide di abbandonare pubblicamente l’islam per dirsi ateo o per farsi cristiano, è passibile di morte. L’unico mezzo a disposizione di chi ha cambiato religione è uscire dal proprio paese. Non parlo solo di paesi della penisola arabica, ma anche di un paese come la Giordania che è piuttosto tollerante: il re ha spiegato di non essere contrario alla conversione, ma ha detto di dover tenere conto della mentalità del suo popolo. Penso a un caso che ho seguito in questi mesi. A Parigi, una signora marocchina è diventata cristiana. Mi ha detto che vorrebbe essere battezzata, ma sa di rischiare e di non poter tornare in Marocco, perché apparirebbe come cristiana. Di conseguenza, si comporta come se fosse ancora musulmana. La sua famiglia lo sa ma senza che tutto ciò sia ufficiale. E’ solo un esempio, ma che chiarisce bene come non ci si trovi mai davanti a situazioni tranquille e pacifiche.

E’ una menzogna dire che l’Isis non c’entra niente con l’islam. Io posso capire chi dice così, perché intende dire che non si riconosce in quell’atteggiamento. Questo è vero, molti musulmani sostengono che quello non è il vero islam, che invece dovrebbe essere pacifico. Però, quando lo sento dire da qualche imam, la cosa diventa grave. Ciò che fa il cosiddetto Stato islamico, infatti, è sempre appoggiato in modo chiaro da un un giurista musulmano che afferma come il determinato atto sia conforme a un precetto dell’islam. E’ necessario, prima di tutto, domandarsi quali siano le fonti su cui si basano i musulmani, miliziani dell’Isis compresi. La prima di queste è il Corano, la seconda è la tradizione, che comprende i fatti della vita di Maometto e i suoi detti. Di raccolte di questo tipo ne esistono a migliaia e tra esse (compilate nei secoli IX e X) ve ne sono nove considerate autentiche. In sostanza, quando lì si trova  una frase di Maometto, si ritiene che sia assolutamente vera. In queste raccolte troviamo tutto ciò che è stato commesso dallo Stato islamico: o nel Corano o nella tradizione orale o nella vita di Maometto. Un esempio lampante è dato dal rogo del pilota giordano. Poco dopo, l’Università di al Azhar del Cairo – che forma migliaia di imam all’anno – ha osservato come quell’azione fosse contraria all’islam, visto che in un detto attribuito al Profeta c’è scritto che bruciare una persona non è permesso all’uomo, essendo questa la caratteristica di Dio, la Geenna: il castigo con il fuoco, insomma, è proprio di Dio. Questo corrisponde a una frase detta da Maometto. Il problema è che il pilota è stato bruciato sulla base di un altro fatto: quando a Maometto presentarono due omosessuali, il Profeta disse che dovevano “essere bruciati, uccisi col fuoco”. Può sembrare contraddittorio, ma questa è la realtà. E non è l’unico caso. 

Può sembrare contraddittorio, ma questa è la realtà. E non è l’unico caso.  Penso per esempio al versetto che dice “uccideteli ovunque li troverete” (Corano: La Mecca, 2:191) e a quelli che negano la costrizione in materia religiosa (Corano: La Mecca, 2:256). Così, quando si chiede perché nell’islam non sia permesso cambiare religione, la risposta è il rimando al secondo capitolo del Corano, dove s’afferma che non v’è costrizione in materia religiosa. E’ vero, peccato che altrove sia scritto il contrario.

 Queste contraddizioni del testo coranico sono ben note a tutti i musulmani. Oggi, questi jihadisti fanatici hanno sempre al loro fianco un religioso, un imam o un dotto, che trova la giustificazione dei loro atti, oppure che sostiene come una determinata azione non si possa compiere, dal momento che non se ne trova corrispondenza nel Corano o nella vita di Maometto. Io capisco i musulmani quando dicono che il comportamento dell’Isis non c’entra con l’islam. Il problema però è capire chi decide cosa è vero e cosa è falso. Pure il Corano riconosce che vi sono contraddizioni. Quando si rileva un’opposizione, si cerca di comprendere quale sia l’elemento più recente. E’ la lezione dell’abrogato e dell’abrogante. Abrogare, cioè cancellare: il versetto che è stato rivelato dopo cancella il versetto opposto rivelato prima. Il Corano è diviso in due parti e ogni capitolo reca in alto la dicitura “meccano” o “medinese”, cioè rivelato alla Mecca (610-622) o a Medina (622-632). In sostanza, dunque, i versetti di Medina cancellano quelli opposti della Mecca. Ma tutti sanno che quelli della Mecca – rivelati per primi – essendo Maometto di fronte a una forte opposizione al punto da fuggire ed emigrare, sono più “pacifici”. Alla Mecca doveva essere gentile e paziente, perché era all’inizio della predicazione. A Medina, invece, si era nel periodo guerriero. E’ qui che ha compiuto una sessantina di attacchi e razzie. E lo dice la tradizione islamica più autentica. I versetti più duri, quindi, sono quelli di Medina che abrogano i precedenti. Per un autentico musulmano, insomma, sono i versetti più violenti che hanno la meglio su quelli più pacifici. Questi sono i fatti ed è qui che nascono i problemi. Ai miei amici di religione islamica dico che è necessario ripensare tale visione, contestualizzandola per i tempi odierni. Un testo vale nel suo contesto e il contesto in cui si trovava Maometto era bellico, dove il modo per diffondere la propria parola non era solo quello della predicazione, ma anche quello delle armi. E’ il contesto del VII secolo che permeava una cultura arabo-beduina, dove tutto si faceva con la forza. L’accordo si raggiungeva dopo confronti guerreschi, ed è ovvio che la violenza fosse permessa. Talvolta, essa dominava.

 

Ma oggi, è necessario questo? E’ ciò che s’è chiesto il presidente egiziano, il generale Abdel Fattah al Sisi, nel suo discorso del dicembre 2014 davanti a una folla di imam all’Università di al Azhar. Sisi concluse il suo intervento dicendo che “dobbiamo assolutamente ripensare l’islam”. Ha usato la frase “fare la rivoluzione nell’islam”. Qualche settimana dopo, il rettore ha fatto sapere di essere pronto e di essere impegnato con la preparazione di questa rivoluzione. Io ritengo che si debba reinterpretare il testo coranico e tutto il sistema islamico. Tutte le religioni e tutti i pensieri hanno dovuto farlo. Perché il mondo evolve, spero, verso la pace e non la guerra. Anche la società civile ha dovuto (e deve) ricalibrare le norme precedenti. L’islam non l’ha fatto, ed è questo il suo dramma. Noi cristiani abbiamo dovuto: con quasi duemila anni di tradizione alle spalle, abbiamo imparato. Ci sono state anche guerre tra cristiani, tra cattolici e protestanti. Non lo possiamo negare. Ma non erano guerre basate sul Vangelo, erano “cose umane”. Abbiamo però capito che i problemi si risolvono con il dibattito, la riflessione e i compromessi. Abbiamo dovuto reinterpretare l’Antico testamento. E’ questo percorso di ripensamento che i musulmani non fanno più. Eppure lo si è fatto nel Medioevo, come dimostrano tanti esempi chiari, in quei secoli, di filosofi e teologi. Faccio un esempio pratico: il Corano dice che nel Paradiso ci saranno frutti di vari tipi, fiumi di acqua fresca e abbondante, vergini per sempre. Oggi si possono vedere su YouTube queste frasi ripetute come fossero la realtà, soprattutto gli aspetti sessuali. “Ho avuto una visione del Paradiso”, si sente dire dinanzi a centinaia di imam. E ci si mette a descrivere le caratteristiche di queste vergini e quanto sia duratura la loro verginità. Mille anni fa, il filosofo Avicenna, musulmano persiano che scriveva per lo più in arabo, affermava che “dopo la morte, il corpo si risolve in polvere, ed è solo l’anima (come dice Aristotele) che è immortale. Nel Paradiso non ci sarà corpo, ma solo l’anima”. Dunque, se nel Paradiso c’è solo l’anima, non c’è da mangiare, da fare sesso, da bere. Questi versetti non sono falsi, ma sono immagini, da considerare come la cosa più bella che un beduino nel deserto può sognare. Era per dire che il Paradiso sarà mille volte più bello di tutto ciò che possiamo pensare sulla Terra. Dopo mille anni, abbiamo fatto mille passi indietro. Questo è il nostro dramma. Allora è fondamentale aiutarsi per andare verso il meglio, per andare avanti. Non per la lotta, ma per la simbiosi. Non per la guerra, ma per la riconciliazione.

***Padre gesuita egiziano, Samir Khalil Samir è un islamologo di fama mondiale. Già docente e pro-rettore del Pontificio Istituto Orientale di Roma, è stato consigliere di Benedetto XVI riguardo i rapporti con l’islam. Ha scritto e pubblicato più di sessanta libri.